L'apparente inglese

Letta al FT Future of Italy Summit: rassicurazioni e omissioni
19 Novembre 2013 - 14:45

Il tassista romano che porta chi scrive e una valente collega alla stazione Termini chiude così la giornata al Financial Times Future of Italy Summit 2013: “Ho un figlio, tassista come me, che non riesce a sposarsi perché da cinque anni non riesce a trasferire la sua licenza a Firenze. Perché ogni città ha le sue regole”.

Alla fine, il bilancio della giornata di Enrico Letta, del ministro D'Alia e di una bella fetta di management italiano all'appuntamento organizzato dal maggior quotidiano finanziario europeo – tra gli altri c'erano Profumo (Mps), Patuano (Telecom), Arpe (Sator), Bonomi (Investindustrial), Battaggia (Grandi Stazioni), Caio (Agenda Digitale) – si può fare anche così. Misurando sul metro della maggior parte degli italiani la distanza tra le aspirazioni e gli annunci alle riforme e alla crescita del Paese e la realtà.

Enrico Letta arriva presto, in orario, e parla inglese, sempre. Presenta i numeri con le slide, come si fa in azienda. Quelli di sostanza sono negativi, a partire dal -1,8% il Pil 2013. Nel 2014 le stime sul Pil della Commissione Ue in autunno prevedevano per l'Italia un debolissimo +0,7, ora ridotto a +0,6%, contro il +1,1 ipotizzato dal governo, ma Confcommercio ha già ridimensionato il dato a un misero +0,3%. Intanto nel 2013 la disoccupazione è salita al 12,2%, il debito pubblico rispetto al Pil è a quota 132,9%.

Letta rimarca che l'Italia sta facendo un lavoro serio, cita le cifre del budget per la crescita nei prossimi tre anni, che però (ma questo lo diciamo noi) restano incerte, viste le tensioni politiche sulla legge di stabilità, oltre che scarsine. Comunque: 15 miliardi di minori tasse tra 2014 e 2016, 3,9 miliardi di spesa per investimenti nello stesso triennio. Poi ripete che saranno fatte le riforme: il processo civile più snello, il ridisegno del Parlamento, il taglio dei soldi ai partiti, l'abolizione delle province. La questione della burocrazia sarà il tema di D'Alia e forse, a sentire platea e oratori, il nodo più problematico per chi vuole investire.

Il premier dà un colpo al cerchio e uno alla botte. Da un lato rassicura che “il consolidamento fiscale è un mantra, un dovere per l'Italia” e spiega che il piano Destinazione Italia convincerà chi ha soldi da investire a venire da noi. Preannuncia anche l'avvio in giornata del lavoro del ex Fmi Carlo Cottarelli sulla tanto attesa spending review (qui le cifre ipotizzate dall'esecutivo). Dall'altro però mostra qualche muscolo nel rapporto con Bruxelles, piuttosto severa con l'Italia. Per esempio sottolineando le cifre dei contributi ai fondi di salvataggio: dopo Germania e Francia l'Italia è il Paese che mette più soldi nei fondi salva Stati (Efsf, Efsm, Esm), 53,9 miliardi di euro, “3 volte quanto ci hanno messo i Paesi Bassi e 10 volte rispetto alla Finlandia”. Occhio, dunque a essere troppo severi con noi. “La legge di stabilità è corretta”, dice Letta al commissario Ue Olli Rehn che ha “rimandato” la manovra, perché "la conformità dell'Italia ai vincoli sul debito pubblico è a rischio nel prossimo anno”. Letta suggerisce a Bruxelles che “il feeling dell'opinione pubblica è importante”:occorre fare attenzione ad alimentare il populismo. E assicura che nel 2014 il debito calerà. Peccato che oggil'Ocse confermi i itmori della Commissione.

Letta parla anche di politica, certo. Dice che la nuova formazione di Alfano renderà più forte l'esecutivo e che “Renzi e il Pd seguiranno il percorso del governo”. Poi glissa, di fatto, sui soldi per l'Agenda digitale annunciando un nuovo terzetto di "tecnici", che si aggiungono ai "saggi" (ne parla Costanza Iotti, un blog da seguire il suo) e su Telecom.

Ma due frasi di Enrico Letta soprattutto sono indicative perché misurano la distanza tra apparenza e sostanza, annunci e risultati, governo e cittadini. La prima sull'Europa e il rischio populismi. Secondo il premier, “dobbiamo presentare l'Europa come un Paese”. Dice proprio così: “presentare”, non “far diventare”. Una frase che sembra palesare i limiti di una politica che ci prova, magari, ma può far poco, stretta tra grandi interessi, gelosie dei governi nazionali e rabbia dei cittadini.

La seconda, piuttosto indicativa, maliziosamente potrebbe essere considerata la cifra del suo governo “di emergenza”. Alla platea “internazionale” (ma in maggioranza si tratta di manager italiani, magari english speaking) dice: “Gli italiani possono fare molto bene, ma se hanno una scadenza (deadline) fanno ancora meglio”. Il che, tradotto, significa che il presidente del Consiglio si fida più della sferza di Bruxelles che dei partiti (e qui lo capiamo), della politica e dei suoi concittadini. E qui, davvero, non riusciamo a capire.

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